Le Fuckup Nights sono un movimento globale partito da Città del Messico nel 2012, durante il quale storie di imprese e progetti falliti vengono raccontate e celebrate.

Gli ideatori dell’evento credevano che le persone avrebbero potuto imparare molto di più dalla conoscenza di esperienze fallimentari rispetto quella di storie di successo. Col tempo quest’idea crebbe, dando vita a eventi internazionali in città come New York, Milano, Istanbul e Lagos: oggi le FuckUp Nights hanno raggiunto più di 200 città in 70 paesi del mondo. Questo evento viene festeggiato una volta al mese, tutti i mesi, con una partecipazione di oltre 10.000 persone in tutto il mondo e, da qualche mese si svolge anche presso l’Impact Hub di Firenze.

Quando un mio amico/collega mi ha proposta e invitata come speaker della nona Fuck up night di Firenze ho subito pensato che fosse bello vedere un fallimento da un’altra prospettiva e cioè da quella delle possibilità che offre e ho detto subito di si.

In fondo avrei dovuto parlare di me stessa, della mia satira… insomma di cose che conosco bene. Ed è vero che sono personali, ma è anche vero che ne ho parlato spesso con gli altri e sui social. Quando però ho iniziato a pensare a cosa avrei detto non è stato facile.

Mi sono resa conto di averne spesso parlato, ma a pezzi e dare un senso logico e temporale a tutto e sopratutto dire tutto non è stato facile.
Non è stato facile verbalizzare la mia storia e trovare delle immagini e delle parole che mi rappresentassero in maniera onesta e semplice.
Avrei potuto raccontare la mia storia da mille punti di vista, omettendo cose scomode. Ma ho scelto di essere diretta e vera, coi limiti  di semplicità e imbarazzo che porta con se questa scelta.
Spogliarsi di sovrastrutture davanti a se stessi e davanti a degli sconosciuti non è semplice, al punto che diverse volte ho maledetto Francesco,l’amico  causa e merito di tutto.

Queste sono le slides e le parole, più o meno,  dell’intervento che ho fatto a Firenze .

Per raccontare di come a un certo punto della mia vita ho fallito in tutto quello in cui potevo fallire  devo tornare un po’ indietro nel tempo.
Perchè è li che ci sono le radici delle strade che ho deciso di percorrere e di come ho deciso di impostare la mia vita e i miei progetti.

Dobbiamo tornare a quando ero una piccoletta  impenitente e più o meno consapevolmente ho deciso che non avrei mai pronunciato una parola. La parola papà.
Ho sempre chiamato mio padre col suo nome di battesimo forse perchè certi legami si sentono o non si sentono da subito, naturalmente. E io ho sempre saputo o sentito di non avere un papà.
Tra il sapere una cosa ed accettarla però c’è una grande differenza. E un bambino non può accettare di non essere amato dal proprio genitore. Non è naturale. E io ho fatto quello che potevo fare a mio modo per cercare di cambiare le cose.
Sono stata una bambina obbediente, brava a scuola ed educata. E poi una brava ragazza, una di quelle con la coscienza ingombrante e la testa sulle spalle, che fa di tutto per non creare problemi e per sentirsi dire brava.


Sono cresciuta pensando di non essere mai abbastanza e facendo di tutto per essere migliore.
Volevo essere LA migliore, perchè nella mia ingenuità speravo che servisse per essere vista e , non dico amata, ma perlomeno suscitare un po’ di orgoglio. Non volevo essere meglio degli altri ma meglio di me stessa per ottenere l’affetto di mio padre e per sentire la mia famiglia come un posto sicuro e amorevole.
Ma volevo anche essere meglio DI. Meglio della famiglia da cui arrivavo: volevo essere un genitore migliore, un marito/moglie migliore, una donna migliore. Non volevo essere come mio padre. Non volevo che il luogo da cui provenivo determinasse il luogo in cui sarei arrivata. E non erano speranze o desideri, erano volontà ferree e ostinate.

E quando ho dovuto scegliere il mio percorso universitario e poi lavorativo la scelta è stata abbastanza semplice: la facoltà più difficile, Medicina e Chirurgia.
Ho superato un test d’ingresso difficile, ma è evidente che non sono queste cose a far innamorare un genitore di un figlio. E’ un seme che se non lo hai nel cuore nessuno e niente può far germogliare. E infatti mio padre, più o meno quando avevo 19 anni, se ne è andato di casa e non è mai più tornato.

Ho continuato ad essere e fare quello che sapevo essere. Ho continuato il mio percorso con ottimi risultati e sulla mia strada ho incontrato un uomo di cui mi sono innamorata, che ho poi sposato e da cui ho avuto mia figlia. Con lui ho condiviso 10 anni delle nostre vite.

Avevo tutto quello che mediamente si desidera e che io stessa avevo fortemente voluto: un buon lavoro, un matrimonio a detta di tutti “ideale”, una condizione economica “invidiabile”.
Ma a cosa serve un buon lavoro se non ti fa addormentare felice? Qual è il senso di una relazione se non ti fa battere il cuore? A cosa servono i soldi se la mattina non ti svegli col sorriso?

A un certo punto tutto ha iniziato a scricchiolare: sapevo cosa sarebbe successo, ma non volevo che tutto crollasse. Così per un po’ ho fatto di tutto per sistemare le cose, per raccontarmi che la mia insoddisfazione, la mia tristezza, il mio non-amore erano temporanei e che si sarebbero risolti da soli. Pensavo che dovevo solo tenere duro e non far crollare tutto. Che la sensazione di malessere e di rassegnazione che mi accompagnava sarebbero passate.
Ma non è passato niente e quando, sfinita dallo sforzo che stavo facendo, ho lasciato la presa tutto mi è crollato addosso.

Sotto alle macerie della mia vita riuscivo solo pensare di non essere stata abbastanza per l’ennesima volta. Non ero stata capace di far funzionare le cose che avevo, e non sapevo cosa fare. Non avevo piani B. Tutto era andato come avevo voluto e non avevo mai pensato che avrei potuto fallire.

Avevo fallito come figlia e ora come mamma, come moglie, come donna, come medico…. non era rimasto nulla tra le macerie della mia vita su cui ricostruire. Non sapevo fare altri mestieri, non avevo una famiglia di origine da cui tornare.

C’era però una certezza da cui ripartire: mia figlia Martina. A lei dovevo una madre migliore di quello che ero in quel momento e l’amore familiare che io non avevo avuto, a lei dovevo ricostruire una “casa” in cui sentirsi libera di essere se stessa e protetta.


In quel caos in cui non riuscivo a trovare una via di uscita la fotografia mi ha trovata.
Ho frequentato dei corsi di fotografia per imparare a usare una reflex, senza minimamente pensare che poi la fotografia sarebbe diventata il mio mestiere. Mi sono appassionata alla fotografia non tanto per il gesto tecnico dello scatto, ma perchè era una forma di linguaggio che avevo trovato subito congeniale a me e con cui riuscivo a espirerei facilmente.
Ho incontrato un insegnante, Sandro Iovine, che oltre ad aver rafforzato in me questa passione, mi ha assegnato un compito sull’autoritratto.
Non sono stata capace di consegnare quel compito, ma mi sono puntata contro la macchina fotografica e le foto che ne uscivano mi mostravano la mia sofferenza, in tutta la sua crudità.( E ne è anche uscito un audiovisivo, “One for sorrow” che ha imboccato una strada tutta sua) E mi dava fastidio vedermi così. poco alla volta, tutti quegli autoritratti hanno iniziato a unirsi come i pezzi di un puzzle e ho visto dove avevo scricchiolato e poi ero crollata facendo cadere tutto quello che mi ero costruita intorno.

E ho capito che per riprendere in mano la mia vita e ricostruirla dovevo prima fare tabula rasa e liberarmi di sensi di colpa e zavorre non mi.
Così con l’aiuto di  amici che sono stati la mia famiglia ho trovato mio padre e sono andata a Perugia, dove si trovava.

Ricorderò sempre la tensione degli ultimi km in auto prima di arrivare. Gli amici che mi accompagnavano e quelli che erano rimasti a casa avevano paura che non fossi abbastanza  forte per sopportare colpi. Io sapevo che non stavo andando da mio padre perchè speravo che si scusasse o per riallacciare i rapporti. Stavo andando lì per restituirgli le sue colpe.

 

 

Quello che è successo quando sono arrivata a Perugia è che mio padre non mi ha riconosciuta.
Io sono mamma e so che riconoscerei mia figlia in mezzo a un miliardo di bambini ad occhi chiusi. Ma io sono mamma, lui non era mai stato papà. E in quel momento si sono sciolti tanti nodi e ho capito tante cose. Ero sempre stata abbastanza, sono abbastanza. Non avevo nessuna colpa di tutto quello che era successo e da quel momento in poi non dovevo preoccuparmi di essere migliore di mio padre perchè lo ero sempre stata.

In quel momento mi sono anche sentita per la prima volta totalmente libera. Libera di essere me stessa, nella mia imperfezione e coi miei errori, libera di essere esattamente quello che volevo essere.

Da quel momento in poi ho smesso di preoccuparmi di essere la migliore e ho iniziato a preoccuparmi solo di una cosa : di essere felice.

Non è sempre stato facile. Ho sbagliato strada per la felicità qualche volta. Qualche volta forse invece non era la strada sbagliata ma semplicemente a un certo punto finiva e ho dovuto tornare indietro e cercarne un’altra.
E probabilmente così farò tante altre volte.
Ma rassegnarsi all’insoddisfazione, accontentarsi per paura di non trovare altro, rassegnarsi alle cose come sono per me è morire dentro e non voglio che succeda mai.

Si vive una volta sola, e non si sa nemmeno quanto. Non c’è tempo da sprecare in altro modo che non sia cercare di essere felici. A proprio modo.

 Il fallimento è stata la mia più grande opportunità. Mi ha regalato una cosa che per me ora è importantissima e sento in ogni molecola del mio corpo: la libertà.

E mi ha fatto capire che ci si può rialzare sempre, ricostruire tutto da zero e fare della propria vita esattamente quello che si vuole .

Ah…. la vita ha molta più fantasia di no e delle strade per fortuna imprevedibili. La fotografia per caso, coincidenza o destino è diventata il mio lavoro. Ho trovato la mia strada, forse a tratti non è asfaltata ma sterrata, sicuramente è piena di curve e di incroci e so che la mia non sarà mai la strada più breve per arrivare alle cose. Ma a me piace camminare sul muretto con le braccia allargate come fossero ali o fare deviazioni verso posti sconosciuti o perdere tempo in campi di ortiche per cercare fiori meravigliosi che si nascondo lì. Non ho fretta di arrivare da nessuna parte, ma ho una gran voglia di godermi tutto quello che incontro 🙂

 

E’ stata una bella esperienza raccontare la mia storia e ascoltare quella degli altri speaker che hanno affrontato il loro fallimento a loro modo.
Ne esco arricchita e serena (cosa che non davo così scontata). E’ stato bello condividere questa serata con un collega e amico che ha fatto il tifo per me e con gli altri che sono venuti ad ascoltarmi. E’stato bello anche conoscere e lavorare in un co-working che mi è sembrato ospitale e dinamico.

Insomma, Firenze aveva qualche debito con me, ma direi che si è fatta perdonare 🙂
ph Francesco Spighi